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La bambina invisibile

  • Immagine del redattore: Alessia Chiricolo
    Alessia Chiricolo
  • 11 lug
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 26 set

Non arrivi a costruirti una stanza tutta tua per caso.

Ci arrivi perché un giorno smetti di funzionare, smetti di far finta, smetti di reggere tutto in silenzio. Ci arrivi dopo aver detto troppi sì, dopo esserti adattata così tanto da dimenticare come sei fatta. Dopo che hai provato a cambiare pelle mille volte per compiacere, per essere amata, per sentirti al posto giusto… senza mai riuscirci davvero.

Ci arrivi stanca, ma ancora viva.

Forse fragile, ma con un’intuizione chiara: qualcosa in te merita finalmente spazio.

Non spazio per spiegarsi o giustificarsi, ma per esistere.


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Da fuori sembrava tutto normale.

Una bambina educata, due genitori presenti, la casa ordinata con i fiori sul balcone.

Ma dentro… qualcosa stonava.

Il cuore si stringeva già da piccola, anche se non avevo parole per spiegare quel disagio. Mi sentivo sempre in dovere, sempre un po’ di troppo. Facevo la brava perché non c’era spazio per essere fragile. Ascoltavo, capivo, mediavo. A volte sembrava che in casa ci fossero tre adulti: mamma, papà… ed io.


A sei anni nasce mio fratello, e con lui arriva il primo vero terremoto. All’inizio è solo gelosia: l’attenzione che si sposta, il trono del primogenito che vacilla. Ma presto diventa qualcosa di più: i miei iniziano a crollare, a litigare sempre. Io ascolto, nascosta dietro le porte, col fiato sospeso. L’atmosfera si fa pesante, il rumore delle urla diventa una costante. Ma nessuno ne parla. Nessuno mi chiede come sto. E allora quella tensione diventa la mia normalità. La respiro come fosse aria.


Mio fratello fin da piccolo era più irrequieto. Manifestava le sue emozioni con coraggio e determinazione. Io invece, per indole più introspettiva e osservatrice, ho imparato a non disturbare. È da lì che, probabilmente, ho cominciato a soffrire. Nel momento in cui ho smesso di esistere per poter reggere tutto il resto.


Col tempo, si è creato uno squilibrio che riconosco solo ora a trent'anni: una parentificazione selettiva: uno dei figli — io — viene visto come quello che “ce la fa”, quello che “capisce”, quello “più forte”, e per questo gli si chiede di più. Emotivamente, moralmente, praticamente. L’altro — più fragile, più esplosivo — viene giustificato, protetto, ascoltato anche quando fa male.

E' una lusinga subdola:– Ti fa sentire “diversa”, “valida”, “migliore”.– Ti dà un’identità, un posto speciale nella mente di chi ami.– Ti illude di avere un certo potere (di aiutare, di cambiare, di tenere insieme le cose).

Ma è anche una condanna.– Ti toglie il diritto di crollare.– Ti rende invisibile quando soffri.– Ti costringe a essere sempre quella che deve “capire”, “contenere”, “non deludere”.

È come ricevere una medaglia per una gara che non volevi correre.


E così, chi regge… continua a reggere. Chi urla… viene abbracciato.

Ma io, che nel frattempo crescevo in silenzio, diventavo invisibile anche a me stessa.

Mi sono messa da parte per non peggiorare le cose. E quando smetti di disturbare abbastanza a lungo, finisci per credere che l’amore sia una cosa che va guadagnata, non qualcosa che ti spetta per il solo fatto di esistere.


A dodici anni arriva la separazione. Mia madre resta sola, ferita, arrabbiata. E mi sceglie: non come figlia, ma come confidente, consigliera, piccola adulta a cui appoggiarsi. Mi affida le sue emozioni più pesanti, mi racconta i suoi dolori, mi cerca per sentirsi meno sola, mentre io, in silenzio, annuisco e mi rendo utile.


Solo anni dopo ho capito perché l’ha fatto. Non era cattiveria. Non era freddezza.

Era un copione antico, imparato troppo presto. Anche lei, da bambina, era stata usata come sfogo emotivo dalla propria madre. Anche lei era “quella buona”, quella che non dava problemi, quella che assorbiva tutto senza mai esplodere. Mentre suo fratello — mio zio — si era ribellato già da adolescente, finendo in contesti pericolosi e sfuggenti, lei aveva scelto l’unica via che sembrava garantirle amore e approvazione: diventare “quella che ce la fa”.


Così, agli occhi di sua madre, lei era la figlia performante e affidabile, mentre il fratello era quello fragile, quello da aiutare, anche a costo di chiudere gli occhi sui suoi errori.

E quella dinamica, senza accorgersene, mia madre l’ha replicata con me e mio fratello.

Ha confuso vicinanza con fusione, affetto con bisogno. Ha cercato conforto non in un’amica, non in un terapeuta, ma nella propria figlia. E io, pur di sentirmi vista, ho accettato il ruolo. Ma quel ruolo mi ha tolto l’adolescenza. Mi ha resa adulta prima del tempo, e ogni volta che provavo a mostrare fragilità, sentivo che stavo tradendo la funzione che avevo per lei.


Mio padre, invece, non c'era davvero mai. Fisicamente presente a tratti, ma emotivamente assente. Svaniva tra una telefonata e l’altra, tra un’uscita e un’improvvisa chiusura. Quando cercavo uno sguardo, una parola vera, arrivava solo quel solito ritornello stanco: “Quando sarai grande capirai.” Come se il mio dolore fosse solo un’incomprensione temporanea. Come se la sua responsabilità potesse essere sfilata come una giacca scomoda.


Ma io non avevo bisogno di un adulto che si giustificasse. Avevo bisogno di un padre. Di qualcuno che vedesse quanto stavo soffocando mentre tentavo disperatamente di reggere tutto in silenzio.

Col tempo ho capito che anche lui portava le sue ferite: figlio non voluto, cresciuto nell’ombra di fratelli celebrati e di una figlia femmina tanto desiderata, forse ha passato tutta la vita cercando di guadagnarsi uno spazio che nella sua famiglia non gli è mai stato dato. E per questo ha fatto lo stesso con noi: ha preteso rispetto, ma non ha saputo darlo.

Ci ha chiesto di comprenderlo, ma non ci ha mai chiesto come stavamo. E ogni volta che provavamo a esprimere un disagio, era colpa di nostra madre, della nostra età, della nostra sensibilità.

Ma io non ero una teoria da analizzare.

Ero una bambina che implorava amore con gli occhi.


Così impari a essere tutto: figlia perfetta, sorella responsabile, studentessa modello, compagna accomodante. Ti costruisci una corazza, sorridi quando vuoi piangere, stai zitta quando vorresti urlare. Funzioni così bene che nessuno si accorge di quanto sei stanca. Di quanto ti senti sola. Diventi invisibile, mentre tutti si congratulano per quanto appari forte. E all’ arrivo dell' adolescenza, quella in cui gli altri si scoprono, sbagliano, si ribellano. Io no. Io mi facevo piccola, silenziosa. Osservavo. Non perché non volessi vivere, ma perché non potevo permettermelo. C’erano doveri invisibili, ruoli assegnati, aspettative che mi cadevano addosso come pietre. La libertà che ti serve per capire chi sei, non arriva mai se nessuno ti lascia prenderla. Alla fine ci credi: forse sono io il problema. Forse ho qualcosa di sbagliato dentro. E intanto perdi pezzi, lasciando indietro tutto ciò che non hai mai avuto il coraggio di reclamare.


Ma oggi sono qui. 

E scrivere è il mio modo di riscrivere la storia. Non per rimanere ferma nel passato, ma per capire da dove sto partendo.

Per smettere di funzionare e iniziare, finalmente, ad esistere.


Questa stanza è il mio primo passo.

Non una fuga, ma un’entrata. Dentro me stessa.

E da qui, si riparte.


 
 
 

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