Tra soglia e orizzonte
- Alessia Chiricolo

- 11 nov
- Tempo di lettura: 3 min

Negli ultimi mesi ho vissuto in uno spazio sospeso.
Tra soglia e orizzonte.
Un luogo dove qualcosa dentro di me si stava disfacendo, e ancora non sapevo cosa sarebbe rinato.
Quando ho cambiato lavoro, quattro mesi fa, non immaginavo il crollo che mi aspettava. Non era solo un nuovo ruolo: volevo mettermi alla prova, vedere se ero diventata più forte. C’era la promessa di crescita. Un futuro un po’ più stabile.
E l’illusione di poter riprovare a fidarmi di me stessa, a dimostrare le mie capacità, dopo mesi in cui mi sentivo fragile e avevo scelto un lavoro più leggero, in attesa di riprendere forza.
Ma, ancor prima di tutto questo, quella scelta nasceva da un’urgenza più profonda. Avevo appena lasciato la casa di mia madre —luogo in cui ero tornata, convinta che avrei potuto trovare pace, silenzio e spazio per guardarmi dentro, dopo anni trascorsi a vagare senza bussola, guidata solo da paure, decisioni impulsive, aspettative non mie e da una scarsa consapevolezza di chi fossi davvero.
Eppure, quei giorni non furono il rifugio che immaginavo. Io e lei siamo sempre state troppo diverse. Diverse regole, diversi modi di gestire la casa.
Lei pratica, io sognatrice. Priorità differenti.
Mesi di attriti, piccoli diverbi, fino al collasso. E poi la decisione di cambiare tutto, una volta e per sempre. Con la promessa silenziosa che non sarei mai più tornata indietro.
Così, all’improvviso, tutto ha accelerato. Nel giro di poche settimane ho cambiato casa e lavoro. Per la prima volta dopo tanto tempo, vivevo di nuovo da sola —o meglio, visto il caro vita, con coinquiline che non conoscevo. Un ambiente nuovo, pieno di voci, di ritmi, di mondi diversi dal mio. Io avevo bisogno di silenzio. Di radicamento. Di respirare. Di osservare. E invece mi sono ritrovata in un vortice di stimoli. Loro espansive, solari, sempre in movimento. Io avevo bisogno di restare ferma. E senza un centro stabile dentro di me, quel confronto continuo mi ha svuotata.
A lavoro non andava meglio. Fin dai primi giorni ho sentito un’energia tossica.
La pressione a raggiungere obiettivi senza strumenti concreti. Tutto basato sulla pretesa, sulla performance, sulla corsa.
Ed io, dentro quella corsa, ho perso la mia voce. Ogni giorno mi convincevo di non essere “abbastanza”. Fino a non distinguere più la realtà dalle mie paure.
Così, un giorno, senza più forze né piani, ho deciso di licenziarmi. Volevo solo smettere di soffrire. Mi spaventava. Ma oggi so che è stato il mio corpo a salvarmi.
Perché a volte la mente resta, ma l’anima no —e allora il corpo prende decisioni drastiche. Ti riporta a casa.
Due settimane fa ho lasciato tutto. Da allora sto imparando a stare davvero.
A dare un nome nuovo a ciò che ho vissuto: non era esaurimento. Era disconnessione.
Il burnout non è sempre troppo lavoro. A volte è troppo poco senso.
Fare cose che non risuonano con te. Vivere in ambienti dove la tua sensibilità non trova spazio. Adattarti a schemi che ti consumano invece di nutrirti.
Ora so che la mia ipersensibilità non è un problema. Il problema è quando la spengo.
In contesti accoglienti, io fiorisco. In quelli disfunzionali, mi ammalo.
Questa consapevolezza sta cambiando tutto. Non ho ancora un piano preciso. Ma sento di avere finalmente una direzione: quella della connessione. Con me stessa. Con le mie emozioni. Con ciò che mi fa sentire viva.
Dentro di me, il cambiamento prende ancora forma. Ma ora non devo più viverlo solo attraverso il dolore. È diventato il mio spazio di rinascita. Un tempo sacro in cui il passato si dissolve e il futuro comincia a prendere forma.
E così, tra soglia e orizzonte, mi scopro diversa. Più radicata. Più sincera. Più mia.
Non sto cercando di “riprendermi”. Sto imparando a non perdermi più.









Commenti